Quando una famiglia si trasferisce in un altro paese, lo fa per i motivi più disparati: migliori opportunità, un futuro più stabile, la fuga da una crisi, o semplicemente per amore. Però, chi parte con i figli, o li mette al mondo lontano dalla terra d’origine, sa che l’emigrazione non si esaurisce con un biglietto aereo o un permesso di soggiorno. Si incarna nel quotidiano, nei piccoli gesti, nelle scelte che, giorno dopo giorno, definiscono l’identità di chi cresce “altrove”.
Parlare di figli emigrati di figli di emigrati e di “seconde generazioni” è parlare di ragazzi che spesso si ritrovano con un piede in due (o più) mondi. Sono bambini che parlano una lingua a scuola e un’altra a casa. Che mangiano cibo locale a pranzo e tradizionale la sera. Che festeggiano il Natale e il Capodanno lunare, l’Eid al-Adha o Diwali. Che a volte si sentono perfettamente a loro agio in ogni contesto e, altre volte, estranei ovunque.

Uno degli interrogativi più frequenti, forse il primo, tra i genitori emigrati riguarda ovviamente la lingua. Quale parlare con i propri figli?
La risposta, di solito, è semplice solo in apparenza.
Mantenere la lingua d’origine significa trasmettere molto più che un vocabolario: è dare accesso a un’eredità culturale, permettere la comunicazione con i nonni o il resto della famiglia, offrire uno strumento in più per comprendere chi si è. Ma la realtà è spesso più complessa. I bambini rispondono nella lingua della scuola, dimenticano parole, mischiano espressioni, e a volte resistono all’uso di un idioma che li fa sentire “diversi” dagli altri coetanei.
Questa tensione si ripresenta anche nelle scelte educative: trasmettere la cultura d’origine senza forzature, lasciare spazio alla nuova identità che i figli stanno costruendo, riconoscere che saranno sempre un “po’ di qui e un po’ di là” e che va bene così, perché la cultura si evolve con loro. Per molti genitori, è una danza costante tra orgoglio e nostalgia, tra protezione e apertura.

C’è chi sceglie di mandare i figli a corsi di lingua e cultura del proprio paese, chi organizza viaggi “di ritorno”, chi cucina piatti tradizionali ogni domenica, e chi semplicemente racconta storie della propria infanzia, sperando che, tra le parole, si tramandi anche un senso di appartenenza. In molti casi l’identità culturale diventa un ponte: i bambini fanno da interpreti tra mondi, insegnano ai compagni a pronunciare il proprio nome, raccontano di usanze che incuriosiscono e uniscono.
Ma non sempre è così semplice. Ci sono famiglie che si sentono isolate, al di fuori della società, che temono di perdere per sempre il legame con la terra natale, o che faticano a far accettare ai figli una parte di sé che questi percepiscono come “lontana”. Troppo spesso sono le persone che le circondano a farle sentire così: in contesti dove l’integrazione non è scontata, dove il razzismo o l’esclusione sociale sono una realtà, trasmettere le proprie radici diventa anche un atto di resistenza.
Eppure, le storie che ci arrivano da ogni parte del mondo parlano anche di forza.
Parlano di bambini che crescono con più occhi sul mondo, più parole per dire le cose, più strumenti per capire gli altri. Bambini che porteranno dentro di sé l’impronta di ciò che i loro genitori non hanno voluto dimenticare. La cultura non è una valigia chiusa: è qualcosa che si adatta, si mescola, si reinventa. E i figli degli emigrati di ogni parte del mondo ne sono, forse, l’espressione più viva.
Se stai crescendo figli lontano da casa, raccontaci la tua esperienza. Che compromessi hai fatto? Cosa hai scelto di tramandare? Ogni storia, da ogni angolo del mondo, può arricchire questa comunità oltre frontiera.